LASCIARE ANDARE

Tempo di lettura: 5 min

Target: ansiosi indagatori del futuro

” La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non opporre loro resistenza, questo crea solo dispiacere. Lascia che la realtà sia realtà. Lascia che le cose fluiscano naturalmente in avanti in qualsiasi modo loro piaccia.” (Lao Tzu).

Interessante quanto angosciante prospettiva. Lavoriamo una vita per avere fama, denaro, prestigio ma non ci sentiamo mai realmente appagati se non in pochi, fuggevoli istanti. Corriamo imperterriti dietro a qualcosa, investendo le nostre forze ed i nostri giorni per afferrarla, e quando, e se, la raggiungiamo, ci ritroviamo invecchiati tra le rughe dell’incompiutezza, pronti a ricominciare daccapo, inseguendo la preda successiva.

Come acqua tra le dita, la vita scorre imperterrita mentre tentiamo cocciutamente di afferrarla.
E più le corriamo dietro, meno ci accorgiamo che corre più forte, lasciando pochi , sfocati segni a rappresentare i frammenti nella nostra memoria già satura.
Osho, col suo sorriso sornione, in poche semplici parole, coglie la questione perfettamente:

“… ogni tanto tenta di vivere e basta. Non lottare e non forzare la vita, osserva in silenzio ciò che accade.“

Ti è mai venuto in mente che forse, ma solo forse, se continui a desiderare quella casa, quella persona, quell’oggetto, senza mai riuscire ad averlo davvero tra le mani come il “tesssoro” di Gollum, è forse perché quella non è “ l’ immagine” a te destinata? Forse quello in cui ci intestardiamo emozionalmente, che siamo convinti leccherà le nostre ferite, non è la cura per il nostro male. A noi serve qualcos’altro, che forse nemmeno conosciamo o immaginiamo possa servirci. 

Patanjali lo chiama Isvara Pranidhanat, il saper abbandonarsi, arrendersi con fiducia, sorridere all’ ignoto, invece di lasciarcene spaventare.

L’arte del saper lasciare andare tuttavia è per pochi eletti. “ Non continuare a desiderare quello che vogliamo ottenere e non rimanere legati a quello che abbiamo o a quello che che pensiamo di dover avere”, come dice Jon Kabat Zinn, non fa parte dell’indole umana, e se si ha la fortuna di scoprire questa proscrizione, va coltivata con gentilezza e pazienza, alla ricerca del Sè. 

Fermarsi. Cosi. All’improvviso. Senza alcuna mediazione ragionata.
Improvvisamente decidi che smetti. Smetti di correre, smetti di inseguire, smetti di volere per forza. Ma non smetti di cercare. Non smetti di capire, continui a voltare curiosamente la pagine del libro, solamente con un ascolto diverso. Con la curiosità di conoscere dove la tua fiducia nell’ignoto ti può portare. 
Provi a prendere le distanze, magari da ciò che ti fa soffrire, provi a non attaccarti con le unghie e i denti alle immagini che la mente crea e ti mostra come imprescindibili. Crei spazio, prendi distanza dalle aspettative altrui ed impari a dire di no.

Semplice. Talmente semplice da sembrare infattibile.
Ma, se si prende coraggio e si inizia, è anche estremamente liberatorio.
Dentro di noi sappiamo dove vogliamo vivere. Dentro di noi sappiamo di cosa abbiamo bisogno. ” Saperlo è facile, è dirlo ad alta voce che è difficile” recitava Robert Redford ne “ L’ uomo che sussurrava ai cavalli”.
Io trovo sia complicato anche saperlo. Siamo talmente soffocati sotto enormi materassi che da anni condizionano la nostra inconsapevole esistenza, da non ricordarci nemmeno più come ci chiamiamo. Pensiamo si faccia così, che ci si debba comportare colà, che le scelte a cui giungiamo, dovute ad altri o ad altro, siano farina del nostro sacco.
La nostra vita è un dono immenso, ma è solo NOSTRO, ed è ora. Mentre riempiamo l’armadio di vestiti che non sappiamo di aver comprato e che probabilmente nemmeno ci piacciono.

Vairagya è un termine dei Sutra di Patanjali (YS 1.12) un pò duro, ma che ripete questo concetto. 
Significa distacco, indifferenza, lasciar stare, lasciar andare. Già da solo sarebbe sufficiente a tenerti sveglio qualche notte a pensare. Ma se aggiungiamo poi che presuppone il “ non attaccamento” a ciò che hai , la questione si complica ulteriormente.

Ho capito che il distacco serve a prendere lo spazio necessario a fare ordine mentale. 
E che l’ indifferenza non ha accezione negativa, ma aiuta a lasciar fluire più velocemente le afflizioni.
Ho capito che lasciar stare a volte serve a non compiere passi falsi, e a non dire quella parola di troppo di cui magari ti pentiresti. E che imparare a lasciare andare serve a te, per non farti opprimere dalle ombre dell’esterno mal filtrate dai nostri sensi.
Non possiamo scegliere ciò che ci capita, ma possiamo scegliere come reagire ad esso. E lasciare andare più in fretta le afflizioni che si riflettono e si proiettano su di noi dall’esterno all’interno, ma che di noi non fanno davvero parte, potrebbe essere un grande aiuto ad avere maggiore rispetto di noi stessi. 
È come se avessimo una moltitudine di sacchi neri della spazzatura da buttare via. Più facciamo pulizia e spazio e più quello che ci serve davvero diventa visibile.
Marie Kondo sarebbe fiera di me…
E’ quando la via è sgombra, che ciò che è a noi destinato arriva.

“Ciò a cui resisti, persiste”. (Jung)

L’ho imparato a suon di testate. 
Lo condivido… non sia mai possa essere utile a qualcuno che riuscirà a capirlo prima di farsi troppi bernoccoli.

Om shanti.

DOGA

Tempo di lettura: 6 min 30 sec

Target: Cinofili Pensatori

Era il 2009 quando vidi il mio primo cane su un annuncio in una pizzeria. Mai avrei pensato che avrei preso un cane e tantomeno che mi avrebbe stravolto lo stile di vita. In fondo è pur sempre un insieme di pelo con quattro zampe, due orecchie simil bistecca e una coda dal moto perpetuo. O meglio, questo è quello che pensa chi non ha amici pelosi al suo fianco.
Dietro tutto ciò che un quadrupede in muta 12 mesi l’anno, amante del fango e delle carcasse putrescenti, rappresenta per i non addetti ai lavori, si nascondono in realtà una serie di questioni dal peso yogico non indifferente. 

Primo. Il cuore.
Il mio primo cane pesa circa 25 kg quando è in forma e 28 quando fa il giro spritz di tutti i croccantini per gatti del circondario. Di questi 20 e passa chili, 19 sono sicuramente di cuore. 


Quel cuore buono che traspare dal languido sguardo di due occhi profondi. Un cuore aperto, disponibile, accogliente. Un modo delicato di porsi e timidamente chiedere. Un cuore gentile. 
Nello yoga si chiama Ahimsa e Satya, non-violenza e sincerità. Non danneggiare in alcun modo gli altri esseri viventi (Patanjali, Yoga Sutra, 2.30) e creare sintonia oggettiva tra la parola ed il pensiero. 


Certo, qualche naso il mio primo cane l’ha pure grattato con gusto, ma questa è tutta un’altra storia…
La falsità, l’imposizione di sovrastrutture che non ci appartengono, il dover essere sempre all’altezza, creano disarmonia, dentro e fuori da noi. I pelosi non sanno recitare una parte, sono quello che sono, non conoscono corazze.

Secondo: il modo di comunicare.
“Lei” (sì, perché il mio primo cane anche se è nero è una lei….) ha imparato a farsi capire. Se deve uscire si mette davanti alla porta ed insistentemente la fissa. Se vuole il biscotto mi tampina incessantemente per tutta casa. E se non desidera particolari attenzioni coccolose inizia a sbuffare come una vecchia suocera. 
Questo mi ricorda molto che Satya si collega ad Asteya, l’onestà. Intesa non solo come mancanza di desiderio per le cose altrui, non rubare (questo non le si addice molto perché la pizza la ruba che è un piacere), ma onestà, e sincerità, nella comunicazione. Cosa difficile nelle faccende umane, perché la parola, e una buona mimica allenata, spesso falsano il piano comunicativo, traendo in inganno, creando aspettative, nascondendo il vero pensiero.
Osservare la “mora” che dormicchia nelle sue innumerevoli cucce sparse per casa mi fa capire anche quanto poco ci voglia per essere felici. Aparigraha è questo: l’assenza di avarizia, non desiderare più dello stretto necessario, perché il possesso in sé implica tensione mentale e sofferenza, genera estenuante fatica per acquisire ciò che si desidera e comporta successiva ed inevitabile preoccupazione nel mantenerlo. (Patanjali, Yoga Sutra)
Quando capirò che mangiare in una ciotola o in un piattino di plastica, dormire su un bel cuscino o per terra, correre felice per boschi e prati o fare una passeggiatina al guinzaglio, in realtà sono sinonimi di avere cibo, essere in grado di sognare, e avere le gambe che funzionano bene per andare in giro, allora credo sarò davvero “arrivata”. 
Qui possiamo ricordarci di Santosha, il sapersi accontentare, l’essere appagati nella propria condizione (Sutra 2.32).

Terzo: fiducia. 

I cani si fidano. Ma si fidano davvero. Si fidano tanto che a quei soggetti poco raccomandabili (per usare un eufemismo) che li abbandonano su una strada, corrono pure dietro, gli salvano la vita se questi osservando la loro malefatta nello specchietto retrovisore fanno un incidente, e tornano a casa con loro se questi li prendono a bastonate. 
Ci ho pensato spesso: non è solo una mancanza di alternativa la loro (in fondo siamo noi che li adottiamo e loro non lo scelgono), ma è amore incondizionato e fiducia palpabile. È dare senza riserve, perdonare senza rancore, riprovarci ancora senza demordere. Non so bene quale prescrizione o proscrizione yogica si possa nominare per questo, perché probabilmente è il concetto stesso dello Yoga riunito, ma forse ci avviciniamo a Tapas: lo sforzo costante, saper sopportare condizione estreme. Patanjali sottolinea che Tapas aiuta a forgiare il carattere, irrobustisce il corpo e la volontà, e soprattutto insegna la grande dote della pazienza. 
Quanta pazienza hanno i cani con noi?

Quarto: pazienza.

I cani aspettano che impariamo a comunicare con loro quando loro già lo sanno fare magnificamente, ci attendono materialmente perché abbiamo mille importantissime cose da fare, portano pazienza per i nostri continui, destabilizzanti sbalzi di umore. 
Noi ne abbiamo almeno un decimo della loro?
Io non di certo, ma la “zia mora” che da dieci anni mi sopporta mi ha dato un paio di lezioncine che non scorderò molto facilmente. 

Quinto: saper vivere il presente. 

Chi davvero si intende di cani mi dice che loro vivono nel qui e ora. Che non hanno un ricordo nitido del passato, se non per certe sensazioni apprese per voglia o per forza che lasciano traccia nei loro comportamenti, e che soprattutto non sanno, e più importante ancora non si chiedono, cosa sarà in futuro. Se ci penso mi sale un misto di terrore e di profonda, liberatoria, ammirazione.
Non sapere cosa sarà, e nemmeno porsi la fastidiosa domanda di cosa potrebbe essere, da un lato mina le poche certezze che si possiedono, dall’altra rende forti ed entusiasti. 
Alimenta per ovvi motivi la fiducia. Allena altrettanto la pazienza. Spaventa un pò. Rende il gusto dell’avventura più tangibile.
Nella meditazione Mindfulness si cerca di lavorare sulla consapevolezza proprio per imparare a vivere nel qui e ora. Rimanere ancorati allo sfuggevole momento attuale per saperlo assaporare, senza lasciarsi invadere da “se” e “ma” mentre la nostra vita accade sotto i nostri occhi e scivola fluida senza che ce ne accorgiamo. 
Chiedo scusa ai puristi della filosofia Yogica, perché probabilmente riterranno questo mio paragone cinofilo-yogico poco rispettoso.
Tuttavia penso che se possiamo provare a capire e mettere in atto concetti così difficili ed antichi, traendo ispirazione dalla nostra vita comune con esempi chiari e semplici, riusciremo forse a ricordarci più facilmente di cosa significa davvero vivere nello yoga.


Di zampe in casa ora ne ho 8. Code 2. Orecchie stile bistecca 4. Il pelo non lo conto più, come le volte che passo l’aspirapolvere.
Le mia scarpe sono piene di fango, non vado più per negozi, ho imparato a riposarmi con estrema soddisfazione dopo una gita in campagna e a ridere rumorosamente quando un temporale mi inzuppa i vestiti cogliendomi all’improvviso.
Spero sarò in grado di farlo anche in prove più ardue di quelle incontrate finora.
Non so voi…ma tutto questo è molto semplice e regala molta semplice felicità. 

Allenta lo sforzo, focalizza l’attenzione, respira più profondamente. 
Forse il tuo benessere non è dove lo stai cercando.

Om shanti.